Diario di una quarantenante

Dal mio balcone vedo strade quasi deserte con il passaggio di singole auto, rari pedoni (uno stamani (quattro adesso in una piazza che solitamente brulica di gente). Vedo anche una fila lunga ma disciplinata di giovani vogliosi di fare acquisti nel supermercato dietro l’angolo. I vecchi restano chiusi in casa, a loro non è permesso uscire neanche per fare acquisti. Buon per loro se hanno figli o nipoti da schiavizzare, ma la spesa ha un’importanza relativa. Gli anziani sono comunque abituati a mangiare poco con le loro pensioni striminzite. Ma tornando alla fila: è l’ordine rigoroso a colpirmi, roba da inglesi in tempo di guerra. Del resto  siamo davvero in guerra contro un nemico subdolo e letale. Alla fine, dai e dai, i capi-popolo ci sono riusciti. Si blocca tutto per riaprire un giorno in gloria, maledicendo le occasioni perse a febbraio e nella prima metà di marzo, frutto di insipienza, calcoli sbagliati o vergognosi interessi personali.

Nell’attesa del lieto fine seguiamo da vicino le capriole della lingua.

Conoscevate la parola “quarantenne” per chi deve fare la quarantena? Io no, ma la trovo curiosa. Mi stupisce anche la fioritura degli hashtag: #io resto a casa – #andrà tutto bene – ma anche, perorando la causa di 50 mila senzatetto facilmente multati dalle forze dell’ordine perché non hanno un buco nel quale ritirarsi, #vorrei stare a casa ma la casa non ce l’ho. E mi colpiscono ancora e sempre le roboanti dichiarazioni per infondere coraggio: orgoglio italiano, forza Italia, avanti Milano, ce la faremo. E, naturalmente, l’augurio solenne: riapriremo. Un futuro speranzoso che suona come una parola d’ordine Nessuno può dirci quando succederà. Nessuno è in grado di prevedere la fine di questa guerra (piccola, grande, sanguinosa e carica di morte) Ma speriamo che una riapertura ci sia. E che  riaprano tutti coloro che hanno chiuso per amore o per forza, perché pure questo è  dubbio.

Studiamo anche la selezione degli aggettivi, dosati sempre allo scopo di rinvigorire l’altalenante spirito nazionale. Sicché il periodo è complicato, difficile, delicato, importante. E certe domande senza una risposta ragionevole diventano assillanti, paradossali o da un milione di dollari.

Giri di parole che riempiono la bocca e risultano quasi convincenti. Noi  primi attori per vocazione, non distinguiamo tra morti per corona-virus e morti con il virus ma assieme a varie concause. Per questo il contingente italiano dei decessi risulta più corposo di quello cinese e pone domande inquietanti sui motivi per cui il virus è così micidiale qui. Non ci converrebbe contare i decessi come tutti gli altri ? Non pare sia stato contemplato. E vabbè: un record, anche negativo, vale bene qualcosa.

O no?

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