La guerra, da vicino

Gli uni e gli altri alzano il tiro. Le armi che mancano. Le armi che arrivano. E la distruzione. La paura. La voglia di fuggire o l’ostinazione a resistere. Vedere i razzi che solcano il cielo come in un video gioco, invece si tratta di vita vissuta. O di morte. Con le case che esplodono, le brande portate nelle metropolitane per evitare le bombe. Le lacrime. I lamenti.

Nei primi anni Sessanta vivevamo ad Aquisgrana (nella Germania federale). Avevamo trovato un bilocale minuscolo ma nuovissimo, accanto a una chiesa protestante che aveva subito danni notevoli durante la guerra. Dal tavolo del soggiorno – dove avevo piazzato la mia macchina da scrivere Monica (Olympia) – potevo vedere l’orologio del campanile, fermo alle 11 e 25, l’ora del bombardamento che aveva ucciso una ventina di civili, tra cui diversi bambini. I parrocchiani si erano rifiutati di far aggiustare il meccanismo danneggiato. Preferivano che l’orologio rimanesse guasto, a ricordo dell’orrore che avevano visto così da vicino.

È solo un ricordo. Ma forte, vivo, come il ricordo del bellissimo aereo americano –  fusoliera d’argento, linea elegante – che sorvolando il nostro giardino in Ungheria nel marzo del 1945 aveva cominciato a mitragliare mia madre che stendeva il bucato e me che sedevo sull’erba accanto a lei. Era una bellissima giornata primaverile, con un cielo terso e il sole ancora tiepido. Io andavo verso i quattro anni anche se l’arrivo al giorno del compleanno – in agosto – non era affatto sicuro. Mia madre mi nascose sotto un mastello di legno e lanciò in una siepe la gonna rossa che indossava e che la rendeva un bersaglio perfetto. Mi spiegò, con un sorriso tirato, «pensa a un gioco. Loro vogliono colpirci, noi dobbiamo nasconderci». Era una storia molto semplice, la poteva capire anche una bambina. Com’era semplice la storia dell’orologio del campanile di Aquisgrana, fermo alle 11 e 25. A ricordare la devastazione della Germania e l’aggressività dei militari contri civili indifesi.

Le avevo dimenticate. Invece, come dice Chaim Potok, bisogna ricordare il passato per capire il presente e costruire il futuro. E allora ne scrivo in questo diario tornando ancora una volta, per strane associazioni, a “La guerra di H”.

 

 

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